Il deposito fiscale ai fini Iva: luogo fisico o regime giuridico? Conseguenze sul piano penale

IL DEPOSITO FISCALE E LA SUA FINALITA’

 

Ho intitolato questa mia relazione un po’ in modo provocatorio proprio per attirare l’attenzione sull’attuale distonia dell’istituto fiscale:  la pretesa che un sistema legale di carattere fiscale sia ancorato ad un impianto fisico, quale condicio sine qua per la sua operatività giuridica.

Qualsiasi mercanzia importata nel nostro paese deve, in genere, adempiere, al momento della dichiarazione doganale, sia la fiscalità comunitaria (dazio o prelievo agricolo), sia quella interna (I.V.A. ed accise).

Gli operatori economici possono usufruire di tre diversi sistemi per detenere delle merci in sospensione di imposizione tributaria, in attesa di offrirne un’attribuzione finale:

 

1)      deposito doganale = per le merci extracomunitarie in sospensione dei diritti doganali e per le merci comunitarie, ex art. 98 del codice doganale comunitario;

2)      deposito fiscale = per le merci intracomunitarie in sospensione di accisa;

3)      depositi I.V.A. = per le merci comunitarie in sospensione di I.V.A. o per le merci extracomunitarie preventivamente immesse in libera pratica (con pagamento del dazio), ma non destinate alla vendita al minuto in tale luogo.

 

Già da oltre 10 anni nell’ambito C.E.E. (continuo ostinatamente a non apprezzare questa distinzione tra gli interessi economici dell’Europa che si traducono nella C.E.E. e quelli politici relegati alla cenerentola U.E…) i depositi I.V.A. sono riconosciuti per evitare che i prodotti intracomunitari siano fiscalmente parificati a quelli terzi, con esenzione-sospensione di imposta quando i beni sono in deposito doganale e non sono immediatamente destinati al consumo finale, purché la potenziale imposta dovuta sarebbe stata uguale a quella dell’importazione: sostanzialmente, la giacenza nel territorio della C.E.E. permette il non ottemperamento dei diritti doganali (di confine e di quelli nostrani), a mezzo dello spostamento della genesi dell’obbligazione tributaria ad un tempo posteriore. L’istituzione di tali depositi nasce, quindi, dall’esigenza di trasferire merci da uno Stato comunitario all’altro in regime di sospensione dell’imposta.

Il sistema prevede poi un’autorizzazione abilitativa (che evidentemente presuppone un controllo preventivo anche della capacità fisica del luogo rispetto alle attività denunciate…), un apposito registro per la movimentazione dei beni, la conservazione della documentazione connessa ai beni introdotti ed un controllo diffuso (anche della G.d.F.) sulla gestione dei depositi.       

Il deposito I.V.A. ha una duplice essenza, quale spazio fisico e quale regime giuridico, ed è indubbio che l’agevolazione fiscale è ontologicamente ancorata al regime giuridico, così assolvendo la ratio del sistema, mentre l’omessa fisica introduzione certamente non crea, di per sé, alcun vulnus agli interessi erariali.

 

 

IL REGIME GIURIDICO ATTUALE

 

L’attuale regime giuridico, quindi, prevede che le mercanzia destinata ad essere introdotta in un deposito I.V.A. non sia da considerarsi merce “importata”, bensì conseguenza di un’operazione al momento esente da imposta (cfr. art. 50 bis comma 4^, lett. b della legge n. 427 del 1993). Da ciò consegue che l’I.V.A. non è più dovuta in dogana, ed una volta che le merci vengano introdotte (materialmente?) nel deposito restano in sospensione di una imposta soltanto potenziale, latente, che sarà dovuta solo in caso di immissione in consumo nel territorio nazionale, oppure esentata in caso di destinazione estera.

Con il codice I.V.A. comunitario (direttiva C.E.E. del 28/11/2006) si è stabilito chiaramente la libertà degli Stati membri di esentare le importazioni per i beni vincolati da un regime di deposito diverso da quello doganale: non a caso la norma parla di “importazioni di beni destinati ad essere vincolati ad un regime di deposito diverso da quello doganale”, con ciò accentuando la necessità di un preciso regime giuridico di tali beni e la conseguente superfluità di uno spazio fisico predeterminato ed in tal senso la norma è stata interpretata dai Paesi bassi (negli U.S.A. ciò è la regola).

Di diverso avviso è stata l’amministrazione delle dogane che, con varie circolari, ha ritenuto che:

 

–          il regime de quo costituisce null’altro che un’agevolazione con un assolvimento dell’imposta differito al momento dell’estrazione del bene per l’immissione in consumo;

–           é necessario ricorrere ad opportuni accorgimenti per individuare le diverse merci vincolate al regime di deposito doganale, in caso di loro eterogeneità;

–          i beni devono essere materialmente introdotti nel deposito, non essendo sufficiente la mera presa in carico documentale; 

–          in caso di omessa introduzione fisica, si consuma un falso della copia della bolletta doganale, in relazione all’inveridica (ideologica o materiale) annotazione circa la presa in carico della merce nel registro del deposito, con sottrazione illecita dell’I.V.A. all’importazione e consequenziale suo recupero, oltre alla revoca dell’autorizzazione;

–          l’omessa introduzione fisica dei beni darebbe poi luogo al reato di contrabbando, ex art. 295 comma 2^ del T.U.L.C.

 

In prima facie, appare evidente che il recupero dell’imposta finisce col realizzare una duplicazione impositiva, come tale illegittima, essendo stata l’I.V.A. già obbligatoriamente assolta in virtù del meccanismo dell’inversione contabile, cd. “reverse charge”, quindi a mezzo di autofatturazione, per cui i beni de quibus finirebbero per essere soggetti ad una spiacevole (ma piacevole per l’erario…) doppia imposizione od anche ad un’imposizione non dovuta quando la merce fosse diretta all’estero (con ingiustificato arricchimento dell’erario in relazione ad una pretesa tributaria geneticamente non debita). Da ciò consegue che, comunque, dall’assunta irregolarità derivante dall’omessa fisica introduzione del bene in deposito non scaturisce alcuna mancata percezione d’imposta da parte dell’erario.    

Il legislatore è quindi ricorso ad una norma interpretativa, con la legge n. 2 del 2009, che molti assumono essere autentica, avente quindi finanche efficacia retroattiva, la quale stabilisce inequivocamente che la consegna al depositario per le prestazioni di servizi, eseguite nei luoghi limitrofi alla struttura materiale, costituisce introduzione nel deposito, accentuandosi il rapporto giuridico, per la costituzione dell’esenzione, tra bene-attività del custode, anziché tra bene-luogo fisico di deposito. Importanti, ai fini ermeneutici, sono comunque i lavori preparatori di tale norma, in ossequio all’art. 12 delle preleggi al c.c.,  che specificano che le operazioni fuori deposito non pregiudicano il contratto di deposito.

Orbene, si tratta allora di esaminare  la norma complessivamente alla luce di tale modifica legislativa: appare fallace l’affermazione per cui il presupposto per l’operatività dell’agevolazione sia irrinunciabilmente la materiale, ancorché brevissima, introduzione in deposito della merce, perché un’esegesi compiuta delle disposizioni permette di comprendere che la custodia dei beni, presupposto del concetto giuridico di deposito, ha come scopo unicamente l’interruzione del diritto impositivo dello Stato, il quale riprende vigenza esclusivamente al conseguirsi di una particolare condizione, non ineluttabile, consistita nella destinazione del bene al consumo nel territorio dello Stato. Non è quindi il concetto di custodia ad essere preminente per la realizzazione del fine impositivo, apparendo necessario, viceversa, che non venga eluso l’interesse dell’erario a percepire il credito di imposta al momento in cui se ne realizza la condizione tributaria. E ciò proprio in ragione della modifica introdotta con la legge n. 2 del 2009, che rende insignificante la materiale immissione nel luogo fisico per ottenere gli effetti sospensivi, il cui legale succedaneo è costituito dalla sola consegna al depositario, ancorché per un periodo di tempo limitato.

Il problema finisce, quindi, con avere una valenza unicamente formale, come avviene per la maggior parte di problemi di carattere fiscale nel nostro paese, ma che non comporta alcuna evasione di imposta: insomma, per alcuni importerebbe che i depositi doganali siano ampi, spaziosi, che venga dimostrata la materiale integrale introduzione dei beni importati in tali spazi e che, tutto sommato, la rigorosa complessiva contabilità connessa alla movimentazione delle merci abbia una rilevanza secondaria. 

 

 

I RISVOLTI PENALISTICI

 

Non pare che, comunque, la condotta del depositario “virtuale” possa configurare alcuna fattispecie penalmente rilevante.

E’ da premettersi che il reato di contrabbando, qualunque comportamento sotteso voglia considerarsi, si caratterizza sempre per una condotta di sottrazione dei diritti di confine ed è integrato dalla lesione o nella messa in pericolo dell’interesse dello Stato a percepire quanto dovuto. Nel caso de quo, trattandosi di merci comunitarie, o già immesse in libera pratica, una tale l’imposta risulta non essere dovuta.

Per quanto concerne la normativa sull’I.V.A., essa all’importazione non rientra mai, in generale, tra i diritti di confine, essendo solo recepite, per tale imposta violata, le norme sanzionatorie proprie di tali diritti (Cass. 3^, 5/10/83 n. 7900), per cui ogni richiamo all’art. 34 comma 2^ T.U.L.D. (spesso effettuato nelle circolari delle dogane) risulta erroneo. Ma non vi potrà essere evasione di I.V.A. all’importazione, nel caso di specie, in primis proprio in ragione dell’obiettiva circostanza dell’emissione di autofatture con compensazione dell’imposta, ciò a prescindere dal fatto che il credito venga a maturare successivamente con la cessione del bene al consumatore finale (per cui si sostiene che la compensazione sarebbe indebita); ma in realtà nel momento in cui il depositario prende in carico la merce, ancorché non la introduca in stoccaggio nel deposito “fisico”, esaurisce l’operazione doganale e la merce non potrà più considerarsi estera in caso di destinazione del bene al consumo interno, per cui l’I.V.A. dovuta sarà quella interna; in altri termini, l’I.V.A. perde la sua natura assimilabile al “diritto di confine”, da corrispondersi all’atto dell’importazione e muta in un ordinario tributo interno, corrisposto all’erario in sede di autoliquidazione, mensile o trimestrale, a seconda del regime applicabile al soggetto passivo. Ma v’è di più: per le merci comunitarie tale imposta all’importazione non potrà mai essere assimilabile ai dazi doganali, proprio perché questi sono notoriamente proibiti dalla normativa comunitaria, essendo soggette unicamente a tributi interni, per cui, in generale, per le merci comunitarie non vi potrà mai essere un’evasione dell’I.V.A. penalmente rilevante, trattandosi sempre di I.V.A. interna (attenzione con gli Svizzeri, non ci sarà mai contrabbando in virtù dell’accordo doganale del 1972, ma permane il reato sotteso appunto all’I.V.A., anche se trattasi di merce originariamente comunitaria, fatta salva la doppia imposizione…).     

Al depositario “virtuale” si potrebbe anche contestare, in astratto, la violazione dell’art. 483 c.p. in relazione alla falsa annotazione nel registro, ex art. 50 bis del D.L. n. 331/93 e 3-4 del D.M. 419/97, in quanto la presa in carico risulterebbe ideologicamente falsa, comportando un’elusione del pagamento I.V.A. Inoltre, dello stesso vizio sarebbero affette le dichiarazioni doganali, non tanto perché lo fossero originariamente, ma in ragione della successiva diversa destinazione in concreto assegnata alla merce: insomma, le “bollette” doganali, emesse in esecuzione di operazioni di immissione in libera pratica, sarebbero false perché la dichiarata destinazione in deposito I.V.A. non si sarebbe mai verificata, mentre la copia della “bolletta” rilasciata dal gestore del deposito sarebbe parimenti fittizia.   

Ma il delitto ex art. 483 c.p. si caratterizza per un’inveridica attestazione fatta direttamente al pubblico ufficiale in un atto pubblico ed in relazione ad uno specifico dovere giuridico di attestare in modo veritiero per espressa disposizione di legge, cioè occorre sempre una norma che disponga un tal obbligo in capo all’obbligato e che, quindi, esista un dovere giuridico dell’attestante di esporre la verità, stabilito in modo indubbio dalla legge regolatrice dell’atto.  

Orbene, in relazione al registro la compilazione è effettuata direttamente dal depositario e non sussiste alcuna dichiarazione diretta ad un P.U., per cui il valore probatorio è rimesso direttamente al privato e non all’agente pubblico, mentre l’atto avente rilevanza pubblica, contenente le affermazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile, come detto, quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati. Diverso è invece il problema sotteso alla compilazione della “bolletta” doganale, la quale non è geneticamente inveridica,  ma lo diventerebbe in ragione della assunta diversa destinazione dei beni. Ma anche in tal caso la fattispecie penale appare di difficile configurazione, proprio in virtù sia della condotta materiale espletata dal depositario, sia della detta modifica legislativa.

In primo luogo, è da osservarsi che l’introduzione nel deposito I.V.A. di beni non comunitari, precedentemente immessi in libera pratica in Italia, avviene sulla base del relativo documento doganale (DAU), copia del quale deve essere restituita all’Ufficio doganale munita di un’attestazione sottoscritta dal depositario, il quale però si limita a certificare unicamente l’avvenuta presa in carico della merce nel registro di cui al citato art. 50 bis, comma 3^ D. L. n. 331/93, con ciò affermando una fatto storico realmente avvenuto.

In secondo luogo, l’introduzione fisica del bene, nell’economia dell’atto giuridico, appare infatti non ineluttabile. In altri termini, si contesta un falso ideologico per omissione, non essendosi specificato che il bene non é stato immesso materialmente nel deposito, visto che per tutti gli altri fini il documento è pienamente aderente alla realtà (quantità e qualità dei beni, ricorso al “reverse charge” ed agli adempimenti antecedenti e successivi), il quale però si configura solo nelle ipotesi in cui la parte omessa abbia un enunciato significativo nell’economia  probatoria dell’atto. Nel caso de quo la merce destinata al deposito viene controllata dalla dogana che ne autorizza l’uscita dagli spazi di competenza, è garantita da fideiussione per l’I.V.A. ed il depositario attesterà sulla “bolletta” doganale la “presa in carico” del deposito, la quale, come detto non è mai ineluttabilmente attinente alla materiale introduzione e nulla ha a che vedere, attesa la sua generica dizione, con un’attestazione di materiale ingresso nel luogo.

D’altra parte, sul piano strettamente civilistico, il contratto di deposito non presuppone necessariamente la predisposizione di un luogo fisico ove custodire un bene,  ma unicamente la traslazione giuridica del bene con l’obbligo di conservazione e protezione di questo, al fine di restituirlo nelle ed alle condizioni concordate.

 

 

IL REGIME GIURIDICO AUSPICABILE

 

Appare manifesto adeguare l’attuale sistema a quello di altri paesi, come l’Olanda, stabilendo unicamente un regime giuridico sospensivo a fronte di quello materiale, responsabilizzando maggiormente l’attuale figura del depositario e sostituendo al concetto di “introduzione”, obsoleto e, per altro, improduttivo di maggiori garanzie di controllo, quello di giacenza giuridica in regime sospensivo di imposta. 

 

Savona li, 21/11/09

 

                                                                       Alberto Landolfi

 

                                                                       Magistrato in Savona

(relazione al Convegno organizzato dal Consiglio Nazionale degli Spedizionieri Doganali, a Torino il 21 Novembre 2009)

 

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