da “Piazza Bernini”

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Com’era diverso, nuovo. I palazzi era bianchi, pieni di luce che abbagliava. C’era una balconata che girava intorno alla casa con delle inferriate nelle quali ci potevi infilare la testa e le gambe. Come stava in alto quella casa! A guardare giù mi venivano le vertigini; allora mi staccavo in fretta dalla balconata perché mi sembrava di poter cadere in quello spazio estraneo.
Lei era agitata. Ci rimproverava e subito dopo ci accarezzava…e piangeva.
E noi persi in quel luogo.
La casa delle nonna era grande.
Era a Piazza Cavour, proprio di fronte alla metropolitana.
Stavo sempre col muso appiccicato ai vetri del balcone a vedere la gente che passava.
Le carrozzelle e gli scugnizzi che giocavano a pallone con la palla di pezza o con un tappo della birra Peroni perché proprio lì vicino stava la birreria dove il nonno mi portava a mangiare il tarallo con le mandorle sopra mentre lui beveva la birra, che una volta m e che mi andò nel naso..
Dopo non mi è piaciuta più.
Il campo di calcio era la strada. Le porte erano le saittelle1 dei marciapiedi
Non mi facevano scendere perché ero troppo piccolo.
E così restavo lì a guardare, anche tutto il giorno.
Lì c’era la nonna, che stava sempre zitta a pregare, zia Franca e Teresina che mi faceva da mangiare e che mi addormentava la sera. E poi c’era il nonno.
Che, aveva altri nipoti, e anche tanti, ma io solo però potevo entrare nella sua stanza e restare con lui. A tavola sedevo alla sua sinistra, sempre, anche di domenica quando c’erano tutti.
Qualche volta mi dava cento lire.
Fu lui, molti anni dopo, a parlarmi per la prima volta di una città lontana sul mare.
Di quella città lontana che aveva conosciuto nella sua gioventù.
Aveva novantaquattro anni e stava seduto su una poltrona nella sua camera da letto, con un fascio di luce che entrava dal balcone e che gli scaldava le gambe.
E aveva gli occhi lucidi e mi teneva la testa tra le braccia.
Era per me che piangeva o forse per un ricordo che gli scioglieva il cuore?
Il nonno amava le donne. Una volta mi confidò che pur avendo avuto otto figli non aveva mai visto l’ombelico della nonna.
Una mattina in quella grande casa di Piazza Cavour tutto cambiò. La nonna, zia Franca e Teresina avevano un atteggiamento strano. Diverso. Indaffarato. Erano mute.
Il nonno chiamò un tassì. Ricordo ancora che era verde e nero e con gli strapuntini. In ginocchio sul divanetto posteriore, attraverso il piccolo lunotto a forma di fagiolo, guardavo la strada che correva via. L’asfalto, il cuore. Tutto era scuro.
La mia casa di allora e di sempre era al centro, in via Donnalbina n. 56. Era al secondo piano in un bel palazzo. Mi piaceva molto. All’epoca mi sembrava grandissima, con alti scalini di pietra nera. Oltre l’ingresso, la casa era composta di quattro stanze, una dentro l’altra, a seguire.
Così la cucina dava nello studio che dava nella camera da pranzo che dava infine nella camera da letto dei miei genitori.
Vidi subito mamma.
Poi lui. Un fulmine.

Il palazzo bianco. Quello pieno di luce affacciava su piazza Bernini, sulla collina del Vomero.
Quello spazio mi intimidiva
Il palazzo di via Donnalbina ospitava una vera e propria comunità del tutto autonoma ed indipendente, che era stata la mia gente.
Per qualche giorno mi limitai ad osservare quello spazio. Lo studiai.
La piazza era tronca, chiusa a sinistra da un muretto che si affacciava su una strada molto più in basso.
Molto dopo il muretto fu demolito perché costruirono un ponte che collegò la piazza con le altre strade di quel quartiere. Così Piazza Bernini diventò una piazza vera, come tutte le altre: con quattro palazzi ai lati e due strade che si incrociavano.
Tutti “noi di Piazza Bernini”, quel muretto ce l’abbiamo nel cuore.
Alfò

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