HELLO – Ancora sulla 12262/10

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Uscita la agognata  sentenza si sono sbizzarriti i commentatori ministeriali.

Quelli però che non hanno alcuna veste ufficiale e che ciononostante diffondono in rete o scrivono pareri che poi, nelle sedi ufficiali, puntualmente rinnegano.

E così oggi si sta sentendo di tutto in materia di depositi Iva.

Alcune sono proprio ridicole, come quella, che pure circola che tende ad abolire tutte le lettere del comma 4 dell’articolo 50 bis fino ad arrivare a sostenere, ad esempio, che la cessione intracomunitaria e l’esportazione possono essere poste in essere solo dopo che il proprietario della merce l’abbia estratta dal deposito con autofattura o fattura integrata.

E il rinnegato reverse charge?

Qualcuno (dell’Amministrazione di secondo livello) consiglia , per il computo dei diritti da garantire  all’atto dell’emissione dell’IM 7, valido per l’introduzione in deposito doganale privato della merce terza (e non in deposito iva) di avvalersi del reverse charge, utilizzabile, invece, solo all’importazione definitiva dei beni rientranti nel regime dell’articolo 74 del decreto Iva.

Ove costituisce assolvimento dell’imposta!

Come sempre!

Scrivendo, mi rivolgo a che ne capisce di dogana e di Iva.

Gli altri per cortesia, stiano zitti e parlino solo chi ne ha facoltà!

Premetto, innanzitutto, che la sentenza è stata anticipata – diversamente da altre due di pari importanza, anch’esse  emesse dalla Suprema Corte negli stessi giorni che, invece, sono state del tutto ignorate – il primo Aprile dalla centrale Agenzia delle Dogane che, in vista dell’udienza che si sarebbe tenuta in Cassazione  il 15 successivo, invitava le Direzioni interregionali e regionali a  chiedere il rinvio dei giudizi in corso  in attesa della pronuncia della Suprema Corte.

Che è stata favorevole all’Amministrazione.

Le due ignorate sono :

  • La n. 10819 del 5 maggio 2010, con la quale la stessa sezione Tributaria Civile della Cassazione, smentendo se stessa, ha riconosciuto che il metodo dell’inversione contabile (reverse charge) corrisponde all’assolvimento dell’imposta, a nulla rilevando che vi siano state irregolarità formali nella registrazione dell’autofattura ;
  • La n. 16860 depositata il 4 maggio 2010, con la quale la terza Sezione Penale ha sancito che l’IVA all’importazione costituisce un tributo interno in relazione al quale si deve ritenere non sussistere il reato di contrabbando, bensì quello di evasione dell’IVA all’importazione con l’unico limite del divieto di doppia imposizione che, violerebbe il principio di neutralità dell’imposta.

Testualmente si riportano alcuni stralci della sentenza:

“Il mancato pagamento dell’imposta configura il reato di evasione dell’IVA all’importazione di cui all’articolo 70 del D.P.R., n 633 del 1972…..

… l’IVA costituisce un tributo interno che, secondo i principi del Trattato CE, è dovuto allo Stato al momento dell’ingresso delle merci, a meno che non si provi che il tributo è già stato assolto anteriormente….

Si può dunque affermare che la giurisprudenza di questa Corte ritiene in modo costante che … impedisca di ritenere ancora sussistente il reato di contrabbando e, al contrario, ammetta la sussistenza dell’ipotesi di evasione dell’IVA all’importazione, con l’unico limite de divieto di doppia imposizione”.

La Terza Sezione Penale della Suprema Corte ha, quindi, ribadito due principi fondamentali:

–       che l’IVA all’importazione non è un diritto di confine ma un tributo interno;

–       che nell’ipotesi di mancato pagamento dell’IVA all’importazione (ipotesi in ogni caso non ricorrente nella fattispecie, in quanto le operazioni d’immissione in libera pratica di beni destinati all’introduzione in deposito Iva e sono effettuate senza pagamento dell’imposta), non si ravvisa il reato di contrabbando, ma solo quello di evasione dell’IVA all’importazione.

Ritorniamo però alla sentenza.

Innanzitutto, a conferma di quanto affermato nella sentenza n. 16860/10, suindicata, non è vero quanto affermato nella sentenza 12262/10 che si sofferma sul diverso sistema di accertamento del tributo all’importazione, da considerarsi un diritto di confine e di cui una quota parte deve essere riversata alla Comunità, dall’IVA nazionale che viene auto liquidata e versata in relazione alla massa di operazioni attive e passive poste in essere dal contribuente e inserite nella dichiarazione periodica.

Sul punto si rappresenta che anche una quota parte dell’IVA nazione è riversata alla Comunità e non solo l’IVA riscossa all’importazione[1] , trattandosi di imposta unica e neutrale. Tra l’altro è esattamente il contrario, in quanto, in tema di risorse proprie il 25 %, dei dazi e non dell’IVA, viene trattenuto in Italia, mentre è il restante 75 % che viene trasferito alla Comunità. L’IVA, invece, che è un’imposta unica che non si sdoppia in IVA doganale ed IVA interna, segue una regola sola, identica sia per quanto attiene l’imposta assolta all’importazione, sia per quella applicata sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni (art. 1 DPR 633/72).

Il deposito Iva è disciplinato dal D.L. 331/93 e dal decreto IVA, che attengono, entrambi, all’imposta sul valore aggiunto, armonizzata in sede comunitaria dalla VI direttiva CEE  del 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE, sostituita dalla direttiva 28 novembre 2006, 2006/11/CEE.

Sono considerati depositi IVA (comma 1 dell’articolo 50 bis), senza necessità di alcuna autorizzazione (è sufficiente una semplice comunicazione, ai fini della valutazione della congruità della garanzia, di cui al comma 2 bis dell’art. 50 bis):

–       I depositi fiscali per i prodotti soggetti ad accisa;

–       I depositi doganali;

Sono, altresì, abilitate a gestire tali depositi anche le imprese esercenti magazzini generali, depositi franchi e quelle operanti nei punti franchi.

Possono essere adibiti a depositi IVA, su autorizzazione dell’Agenzia delle Entrate, ai sensi del 2° comma dell’art. 50 bis del D.L. 331/93, anche magazzini nazionali, diversi da quelli sopra elencati, il cui controllo è demandato all’Agenzia delle Entrate, ovvero alla Guardia di Finanza e non all’Agenzia delle Dogane, che non ha alcuna competenza sugli stessi.

In ogni caso, la normativa sui depositi IVA è sempre la stessa, ed è quella dettata dall’art. 50 bis in commento, sebbene il controllo sulla regolarità della loro gestione, per motivi di economicità, viene alcune volte demandato alle dogane, altre volte all’Agenzia delle Entrate ed, in ogni caso, alla Guardia di Finanza.

Il regime fiscale del deposito IVA origina dal capo 10 – sez. 1^ –  art. 157 della VI direttiva Iva, n. 2006/112/CEE, che consente agli Stati membri di esentare le importazioni di beni destinati ad essere vincolati ad un regime di deposito diverso da quello doganale.

Il diverso regime, di cui all’art. 157 della VI direttiva, è stato recepito nella legislazione nazionale dalla Legge 28/97, che ha inserito l’art. 50 bis nel D.L. 331/93, con il quale sono stati istituiti, ai soli fini dell’imposta sul valore aggiunto, speciali depositi fiscali, denominati depositi IVA, per la custodia di beni nazionali e comunitari, che non siano destinati alla vendita al minuto nei locali dei depositi medesimi. (Comma 1 dell’art. 50 bis)

Nel caso preso in considerazione nella sentenza n. 12262/10 il deposito IVA era un deposito istituzionale in quanto il magazzino era stato autorizzato dalla dogana a fungere da deposito doganale privato, con tutte le conseguenze previste dalla norma doganale per tali depositi, che nulla ha a che vedere con quella dei depositi IVA.

Con la conseguenza che per la Suprema Corte un deposito fiscale accise funge anche da deposito IVA, quest’ultimo non verrebbe disciplinato dall’articolo 50 bis ma dal decreto legislativo n. 504/95, così anche i magazzini generali, i deposito franchi e i depositi ubicati nelle zone franche, se adibiti istituzionalmente anche a deposito IVA, questi ultimi sarebbero regolati dalle disposizioni relative ai magazzini generali, ai depositi franchi e ai depositi ubicati nelle zone franche.

Rientrerebbero nell’art.50 bis soltanto i depositi per conto terzi autorizzati dall’Agenzia delle Entrate a società di capitali con capitale superiore a 516.000 euro.

Grido: non è così! E l’amministrazione non può non condividere.

Tutto i depositi doganali hanno un regime teso a sorvegliare la merce sulla quale gravano, nella maggior parte dei casi, sia il dazio, sia l’IVA e per la quale non si conosce neanche ancora la sua posizione in ordine ai divieti di natura economica e valutaria. Questi magazzini doganali sono tenuti ad una contabilità rigidissima, approvato dalla dogana (si pensi, ad esempio, nel caso dei depositi fiscali accise qual è l’ammontare delle accise dovuti).

Il deposito IVA non ha nulla a che fare con gli indicati magazzini doganali.

In esso c’è merce nazionale o comunitaria, non soggetta ad alcuna vigilanza doganale e sulla quale dovrà essere riscossa l’IVA interna soltanto se la merce viene destinata all’immissione in consumo nel territorio nazionale, nel qual caso, per disposto normativo inderogabile del comma 6 dell’art. 50 bis, l’IVA deve essere assolta con il metodo dell’inversione contabile.

Lo ha stabilito, innanzitutto il Legislatore, poi lo ha riconosciuto la Corte di Giustizia Europea, la Suprema Corte di Cassazione, l’Agenzia delle Entrate, quella delle Dogane e innumerevoli Commissioni Tributarie.

Si vogliono forse abolire i depositi IVA?

Si vuole assimilare quest’istituto alle frodi carosello che sono state efficacemente combattute con il decreto anticrisi?

Io, per primo, ho scritto delle frodi carosello nel capitolo “Il carosello di Lin Pin” a pag. 85 de “Le Voci di Fuori”.

Ora che non sono più considerati soggetti passivi d’imposta i rappresentanti fiscali e i soggetti comunitari identificati direttamente in Italia quelle frodi hanno avuto una batosta solenne.

Ma i depositi IVA non sono necessari per porre in essere quelle frodi.

Al contrario essi sono, se conosciuti, una fonte di sviluppo economico.

Per quanto riguarda la validità dello jus superveniens, del quale si è già detto su questo blog, ma l’Agenzia delle Dogane non l’aveva già riconosciuto con la nota 22321/RU del 24/02/2009?

In quella nota, si legge testualmente:

“Di seguito alla circolare 16/D del 28 aprile 2006 ed alla direttiva prot. n. 7521 del 28 dicembre 2006, concernenti il regime del deposito doganale, fiscale ai fini accise e ai fini IVA, si richiama l’attenzione sull’art. 16, comma 5-bis della legge 28 gennaio 2009, n. 2, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale.

La suddetta disposizione stabilisce che la lettera h) del comma 4 dell’art. 50-bis, del decreto legge 30 agosto 1993, n.331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 si interpreta nel senso che: “le prestazioni di servizi ivi indicate, relative a beni consegnati al depositario, costituiscono ad ogni effetto introduzione nel deposito IVA”.

Sulla base di quanto esplicitato nella relativa relazione illustrativa, le suddette prestazioni di servizi, comprese le manipolazioni usuali di cui all’allegato 72 al Regolamento CEE n. 2454/93, costituiscono, ad ogni effetto, introduzione nel deposito IVA anche se effettuate negli spazi limitrofi o adiacenti il deposito stesso.

Resta fermo quanto in precedenza precisato da questa Agenzia in merito all’inapplicabilità dell’art. 50-bis in esame in caso di inesistenza giuridica o simulazione del contratto di deposito, presupposto imprescindibile per l’applicazione dell’istituto.”

Sull’ultima frase della circolare, che si riferisce all’inesistenza giuridica o simulazione del contratto siamo perfettamente d’accordo, perché su questo blog si combatte il malaffare e la corruzione che sono certamente mali che allignano nel nostro Paese.

gianni gargano

francesco pagnozzi


[1] V. Articolo 2 della Decisione del Consiglio del 29 settembre 2000 n. 597 – relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee.

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