Il quinto motivo della sentenza 12262 10

A partire da oggi si riporteranno, secondo un mio  ordine soggettivo,   le motivazioni della sentenza n.12262 10, per rappresentare, con il massimo rispetto per la Suprema Corte, come sia difficile la sua lettura e la sua contestazione in sede di contenzioso tributario, tenuto conto della difficoltà insita all’istituto del deposito Iva.

Ancora una volta ritengo che non sia deontologicamente corretto che l’Amministrazione non la commenti.

E che non tenga conto di tutta la giurisprudenza e la dottrina consolidata.

E che il ministero dell’ Economia e delle  Finanze è proprio deputato alla gestione e controllo, tra l’altro, anche dei depositi Iva.

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Il quinto motivo

La sentenza n. 12262 10 della Suprema Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, riportata integralmente su questo blog, rigetta il quinto motivo del ricorso con la seguente motivazione:

“La gestione dei depositi Iva è ampiamente regolata dagli artt. 98/110 del Codice Doganale Comunitario e non può prescindere dalla materiale introduzione delle merci nel deposito doganale che è definito (art.99, comma 3) “qualsiasi luogo, autorizzato dall’autorità doganale e sottoposto al suo controllo, in cui le merci possono essere immagazzinate”, con comminazione di responsabilità per il depositario (art. 101), tenuto in particolare ad garantire che “ le merci non siano sottratte alla sorveglianza doganale durante la loro permanenza nel deposito doganale”. L’art. 50 bis del D.L. 331/93, anche se non prevede esplicitamente la materialità del deposito (peraltro insita nella stessa nozione civilistica del termine), non può certamente porsi in contrasto con la norma comunitaria, di cui rappresenta piuttosto la conferma. Dunque, stabilito che il deposito Iva a’ fini doganali richiede necessariamente l’immagazzinamento delle merci d’importazione, resta da stabilire se l’avvenuto assolvimento, mediante auto fatturazione dell’Iva interna possa compensare il mancato pagamento dell’Iva all’importazione, ovvero se l’Iva richiesta con gli avvisi impugnati rappresenti una duplicazione del tributo già corrisposto. A tale ultimo quesito va data risposta negativa. Infatti il sistema di accertamento dei due tributi è diverso, in quanto l’Iva all’importazione è diritto di confine che deve essere accertato e riscosso nel momento in cui si verifica il presupposto impositivo, e di cui una quota parte deve essere riversata alla Comunità Europea, mentre l’Iva nazionale viene auto liquidata e versata in relazione alla massa di operazioni attive e passive poste in essere dal contribuente e inserite nella dichiarazione periodica. Quanto all’autofatturazione delle merci in uscita da un deposito Iva, trattasi di un’operazione neutra di compensazione dell’Iva nazionale a debito con quella a credito. L’introduzione della merce d’importazione nel deposito Iva costituisce dunque il presupposto per l’esenzione dell’Iva all’importazione su merci comunitarie, parificate dal Reg. CEE 2932/92 a merci non comunitarie  immagazzinate, (art. 98 lett.  a) b) CDC), fruenti dell’esenzione daziaria purché vincolate al regime del deposito doganale, stabilito nell’autorizzazione. E poiché il presupposto per fruire di tale esenzione da dazi ed Iva è costituito proprio da quell’immagazzinamento che nella specie non è avvenuto – consegue che, in difetto di quel presupposto l’Iva all’importazione è dovuta da tutti i soggetti che hanno concorso alla introduzione irregolare della merce (art. 38 D.P.R. n. 43/73), a prescindere dal fatto che l’art. 50 bis cit. renda comunque responsabile, in via solidale, il depositario del mancato assolvimento dell’Iva interna. La responsabilità solidale della ricorrente nasce, infatti, dalla irregolare gestione del deposito Iva, che ha consentito agli importatori, attraverso mere registrazioni, di attraversare il confine senza il pagamento di dazi e Iva all’importazione, restando in possesso della merce non depositata, sulla quale hanno corrisposto soltanto l’Iva in autofattura, di cui si è detto..

Anche il quinto motivo di ricorso è pertanto infondato:

LA DIFFERENZA TRA DEPOSITI DOGANALI E DEPOSITI IVA

Il deposito doganale privato è un regime doganale economico, cui appartengono anche il perfezionamento attivo, la trasformazione sotto controllo doganale, l’ammissione temporanea ed il perfezionamento passivo.

Previsti dalla legislazione comunitaria, si definiscono economici perché finalizzati ad una riduzione del costo complessivo di ciascuna delle operazioni suindicate.

Nel regime economico del deposito doganale, le merci non perdono la loro natura di merci estere, sulle quali pendono ancora la riscossione dei dazi e degli atri diritti doganali, restando, pertanto sottoposte a continua vigilanza della dogana.

Quello del deposito doganale appartiene, altresì, alla categoria dei regimi doganali “sospensivi”, che sono quei regimi che sospendono il pagamento dei dazi e l’applicazione delle misure di politica commerciale, per tutto il periodo di vincolo al regime.

Nei regimi definitivi, invece, quale il caso della importazione, ovvero della immissione in libera pratica, le merci perdono la loro originaria natura di merci estere per divenire nazionalizzate (ovvero, equiparate a tutti gli effetti a quelle nazionali) nel primo caso, ovvero comunitarie (equiparate a tutti gli effetti a quelle comunitarie), nel secondo.

Il  deposito doganale è definito all’articolo 98 del CDC, come il regime che consente l’immagazzinamento di:

a)    Merci non comunitarie (terze) senza che tali merci siano soggette ai dazi all’importazione e alle misure di politica commerciale;

b)    Merci comunitarie per le quali una normativa comunitaria specifica prevede, a motivo del loro collocamento nel deposito doganale, il beneficio di misure connesse, in genere con l’esportazione delle merci.

Esso è autorizzato dall’Autorità doganale e sottoposto al suo controllo.

Al di là dell’ipotesi di cui alla lettera b) dell’articolo 98 del CDC sopra riportato, del tutto estranea alla questione, nei depositi doganali la merce deve essere necessariamente immagazzinata e tenuta sotto vigilanza doganale perché estera e, perciò, ancora soggetta al pagamento dei dazi e di tutti gli altri diritti doganali, nonché alle misure di politica commerciale[1].

Il deposito doganale può essere (art. 99 del CDC)  pubblico o privato, a seconda che sia aperto all’immagazzinamento di merci di chiunque, ovvero unicamente a quelle del depositario.

In entrambi i casi la merce viene in essi custodita allo stato estero.

Senza voler dire, infine, di tutte le destinazioni e i regimi doganali, corre la necessità di rappresentare che tra i regimi doganali si distinguono quelli definitivi, che sono l’importazione e l’esportazione che hanno scontato tutte le misure attinenti la fiscalità e quelle di politica commerciale, da quelli sospensivi, tra i quali, appunto (Art. 84 CDC) quello del deposito doganale, ove restano sospesi il pagamento dei dazi e l’applicazione delle misure di politica commerciale fin quando, venuti meno i motivi che ne facevano beneficiare la sospensione, alle merci a tali regimi vincolate non venga data una destinazione doganale successiva.

Il deposito IVA è istituto del tutto diverso, di natura meramente fiscale, che nulla ha a che a vedere con l’istituto del deposito doganale privato, che ha invece natura doganale.

Il deposito Iva è disciplinato dal D.L. 331/93 e dal decreto IVA, che attengono, entrambi, all’imposta sul valore aggiunto, armonizzata in sede comunitaria dalla VI direttiva CEE  del 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE, sostituita dalla direttiva 28 novembre 2006, 2006/11/CEE.

Sono considerati depositi IVA (comma 1 dell’articolo 50 bis), senza necessità di alcuna autorizzazione (è sufficiente una semplice comunicazione, ai fini della valutazione della congruità della garanzia, di cui al comma 2 bis dell’art. 50 bis):

–       I depositi fiscali per i prodotti soggetti ad accisa;

–       I depositi doganali;

Sono, altresì, abilitate a gestire tali depositi anche le imprese esercenti magazzini generali, depositi franchi e quelle operanti nei punti franchi.

Possono essere adibiti a depositi IVA, su autorizzazione dell’Agenzia delle Entrate, ai sensi del 2° comma dell’art. 50 bis del D.L. 331/93, anche magazzini nazionali, diversi da quelli sopra elencati, il cui controllo è demandato all’Agenzia delle Entrate, ovvero alla Guardia di Finanza e non all’Agenzia delle Dogane, che non ha alcuna competenza sugli stessi.

In ogni caso, la normativa sui depositi IVA è sempre la stessa, ed è quella dettata dall’art. 50 bis in commento, sebbene il controllo sulla regolarità della loro gestione, per motivi di economicità, viene alcune volte demandato alle dogane, altre volte all’Agenzia delle Entrate ed, in ogni caso, alla Guardia di Finanza.

Il regime fiscale del deposito IVA origina dal capo 10 – sez. 1^ –  art. 157 della VI direttiva Iva, n. 2006/112/CEE, che consente agli Stati membri di esentare le importazioni di beni destinati ad essere vincolati ad un regime di deposito diverso da quello doganale.

Il diverso regime, di cui all’art. 157 della VI direttiva, è stato recepito nella legislazione nazionale dalla Legge 28/97, che ha inserito l’art. 50 bis nel D.L. 331/93, con il quale sono stati istituiti, ai soli fini dell’imposta sul valore aggiunto, speciali depositi fiscali, denominati depositi IVA, per la custodia di beni nazionali e comunitari, che non siano destinati alla vendita al minuto nei locali dei depositi medesimi. (Comma 1 dell’art. 50 bis)

Contrariamente a quanto previsto per i depositi doganali di cui agli artt. 98 e ss. del CDC, nei depositi IVA non può mai essere immagazzinata merce terza, ancora allo stato estero.

A conferma di quanto disposto al primo comma (custodia di beni nazionali e comunitari), a mente del comma 4 dell’art. 50 bis, possono essere effettuate senza pagamento dell’imposta sul valore aggiunto soltanto le seguenti operazioni:

a)    gli acquisti intracomunitari di beni eseguiti mediante introduzione in un deposito IVA;

b)    le operazioni di immissione in libera pratica di beni non comunitari di beni destinati ad essere introdotti in un deposito IVA (fattispecie in esame);

c)    le cessioni di beni, nei confronti dei soggetti identificati in altro stato membro della Comunità Europea, eseguite mediante introduzione in un deposito IVA;

………

La motivazione della sentenza in commento pare confondere l’istituto doganale del deposito doganale di cui all’art. 98 del CDC, di cui si è detto, con quello del deposito IVA avente, si ripete, invece, natura fiscale, autonoma e diversa.

Tutto ciò premesso, di difficile comprensione appare quanto affermato nella motivazione a pagg. 10 e 11 della sentenza, che sembra riferibile ad una fattispecie sconosciuta al deposito iva

“L’introduzione della merce di importazione nel deposito IVA costituisce dunque il presupposto per l’esenzione dell’IVA all’importazione su merci comunitarie, parificate dal Reg. CEE 2932/92 a merci non comunitarie immagazzinate, (art. 98 lett. a) b) CDC), fruenti dell’esenzione daziaria purchè vincolate al regime del deposito doganale, stabilito nell’autorizzazione. E poiché il presupposto per fruire esenzione da dazi ed IVA è costituito proprio da quell’immagazzinamento che nella specie non è avvenuto – consegue che in difetto di quel presupposto l’IVA all’importazione è dovuta da tutti i soggetti che hanno concorso alla introduzione irregolare della merce (art. 38 DPR 43/73), a prescindere dal fatto che l’art. 50 bis cit. renda comunque responsabile, in via solidale, il depositario del mancato assolvimento dell’IVA interna. La responsabilità solidale della ricorrente nasce, infatti dalla irregolare gestione del deposito IVA, che ha consentito agli importatori, attraverso mere registrazione di attraversare il confine senza il pagamento dei dazi e IVA all’importazione restando in possesso della merce non depositata sulla quale hanno corrisposto soltanto l’IVA in autofattura di cui si è detto.”

E’ questa la motivazione del rigetto del quinto motivo del ricorso che atteneva specificamente al quesito se fosse necessario immagazzinare, ovvero introdurre fisicamente la merce nel deposito IVA.

La sentenza pare confondere l’istituto del deposito doganale nel quale, come visto, la merce deve essere necessariamente immagazzinata per restare sotto continua vigilanza doganale in quanto ancora allo stato estero e per la quale non sono stati corrisposti né il dazio, né l’IVA, in attesa di una destinazione doganale successiva, con quello del deposito IVA, dove, invece, la merce estera non può assolutamente entrare..

Nei depositi IVA:

a)    può essere introdotta soltanto merce nazionale o comunitaria, intendendosi per tale anche quella estera immessa in libera pratica che ha, perciò, assolto il dazio, ma non l’IVA, peraltro neanche dovuta in quella sede (si tratta di operazione effettuata senza pagamento dell’IVA, per i motivi già esposti ripetutamente su questo blog) in quanto destinata ad essere, appunto, introdotta nel deposito IVA;

b)    la merce immessa in libera pratica e destinata al deposito IVA, qual’è la fattispecie in esame, non è destinata al deposito doganale privato, come pare evincersi dalla sentenza e, pertanto, non deve essere immagazzinata in tale deposito, né potrebbe esserlo, in quanto nei depositi doganali è immagazzinabile soltanto merce estera;

c)    la merce introdotta nel deposito IVA non è sottoposta a vigilanza doganale, come, invece, quella immagazzinata in un deposito doganale, ma solo al controllo della regolare gestione del deposito IVA da parte del depositario, trattandosi di merce nazionale e/o comunitaria che può liberamente uscire dal deposito senza l’intervento della dogana;

L’affermazione fatta in sentenza che

La responsabilità solidale della ricorrente nasce, infatti dalla irregolare gestione del deposito IVA, che ha consentito agli importatori, attraverso mere registrazione di attraversare il confine senza il pagamento dei dazi e IVA all’importazione restando in possesso della merce non depositata sulla quale hanno corrisposto soltanto l’IVA in autofattura di cui si è detto.”

non è certamente riferibile alla fattispecie in esame, ove non vi è stato alcun attraversamento di confine con evasione di dazio e di IVA, avendo la ricorrente regolarmente immesso in libera pratica la merce destinata al deposito IVA, previo presentazione della merce in dogana, corresponsione del dazio, nonché pagamento dell’IVA all’estrazione, così come per legge (comma 6 – art. 50 bis D.L. 331/93). La regolarità dell’operazione risulta dallo svincolo della merce apposto dalla dogana su tutte le dichiarazioni presentatele.

SULL’ASSOVIMENTO DELL’IMPOSTA MEDIANTE AUTOFATTURA

La sentenza si sofferma anche sulla questione se l’assolvimento dell’IVA all’estrazione, mediante emissione di autofattura registrata con il sistema del “reverse charge”, possa ritenere l’IVA comunque assolta e se, quindi, l’imposta richiesta dalla dogana non rappresenti una duplicazione del tributo già corrisposto.

Sul punto la Suprema Corte si sofferma sul diverso sistema di accertamento del tributo all’importazione, da considerarsi un diritto di confine e di cui una quota parte deve essere riversata alla Comunità, dall’IVA nazionale che viene auto liquidata e versata in relazione alla massa di operazioni attive e passive poste in essere dal contribuente e inserite nella dichiarazione periodica.

Innanzitutto si rappresenta che anche una quota parte dell’IVA nazionele è riversata alla Comunità e non solo l’IVA riscossa all’importazione , trattandosi di imposta unica e neutrale. Tra l’altro è esattamente il contrario, in quanto, in tema di risorse proprie l 25 %, dei dazi e non dell’IVA, viene trattenuto in Italia, mentre è il restante 75 % che viene trasferito alla Comunità. L’IVA, invece, che è un’imposta unica che non si sdoppia in IVA doganale ed IVA interna, segue una regola sola, identica sia per quanto attiene l’imposta assolta all’importazione, sia per quella applicata sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni (art. 1 DPR 633/72).

Tutto ciò contrasta con quanto sancito, sempre dalla Corte di Cassazione, nella recentissima sentenza n. n. 10819 del 5 maggio 2010, della stessa Sezione  Tributaria Civile, depositata il 18/05/2010,, nella quale la Suprema Corte, concordando con quanto sancito dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza dell’8.5.2008, nelle cause riunite C-95/07, C-96/07, ha stabilito che:

”….. nel caso di reverse charge, l’inosservanza da parte del contribuente delle

formalità prescritte dalla normativa nazionale, ossia dell’obbligo di emettere autofattura, “non può privarlo del suo diritto a detrazione”, giacché “il principio di neutralità fiscale esige che la detrazione dell’IVA a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche se taluni obblighi formali siano omessi dai soggetti passivi” (essendo tali, in presenza di reverse charge, i cessionari o committenti): in tal senso, Corte di giustizia CEE, sent. 8.5.2008….”

La sentenza n. 12262/10 in commento contrasta, altresì, con l’altrettanto recente sentenza n. 16860/10 della Terza Sezione Penale della Suprema Corte che ha sancito che l’IVA all’importazione costituisce un tributo interno in relazione al quale si deve ritenere non sussistere il reato di contrabbando, bensì quello di evasione dell’IVA all’importazione con l’unico limite del divieto di doppia imposizione che, violerebbe il principio di neutralità dell’imposta.

Testualmente si riportano alcuni stralci della sentenza:

“Il mancato pagamento dell’imposta configura il reato di evasione dell’IVA all’importazione di cui all’articolo 70 del D.P.R., n 633 del 1972…..

…l’IVA costituisce un tributo interno che, secondo i principi del Trattato CE, è dovuto allo Stato al momento dell’ingresso delle merci, a meno che non si provi che il tributo è già stato assolto anteriormente….

Si può dunque affermare che la giurisprudenza di questa Corte ritiene in modo costante che … impedisca di ritenere ancora sussistente il reato di contrabbando e, al contrario, ammetta la sussistenza dell’ipotesi di evasione dell’IVA all’importazione, con l’unico limite de divieto di doppia imposizione”.

La Terza Sezione Penale della Suprema Corte ha, quindi, ribadito due principi fondamentali:

–       che l’IVA all’importazione non è un diritto di confine ma un tributo interno;

–       che nell’ipotesi di mancato pagamento dell’IVA all’importazione (ipotesi in ogni caso non ricorrente nella fattispecie oggetto del presente ricorso, in quanto le operazioni in questione sono effettuate senza pagamento dell’imposta), non si ravvisa il reato di contrabbando, ma solo quello di evasione dell’IVA all’importazione.

Il sistema di registrazione con metodo dell’inversiaone contabile costituisce assolvimento dell’imposta (v. acquisti intracomunitari, comma 6 del D.L. 331/93, circolare 21/e del 15 marzo 2010 dell’Agenzia delle Entrate, commentata su questo blog)

Gianni gargano


[1] La dogana, cioè, non ha ancora verificato se si tratta di merce di libera importazione, ovvero subordinata alla presentazione di licenza o di altra misura rientrante tra i divieti di natura economici e commerciali.

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