La sentenza n. 66/09/09 depositata l’1 luglio 2009 della Commissione Tributaria Regionale di Trieste Sezione 9
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La xxx Spa effettuava nel periodo compreso tra il 17 marzo 1999 ed il 17 maggio 2000 presso la dogana di Trieste nr.23 importazioni di calzature con suole esterne in gomma o materia plastica e tomaia in materia tessile, presentando dei certificati di origine emessi da Autorità doganali estere.
L’Amministrazione finanziaria richiedeva l’accertamento sulla effettiva origine dei certificati ed avuta risposta dal paese estero da un lato inviava segnalazione alla Procura della Repubblica di Trieste per la ipotesi di cui agli artt.81 cpv – 48 e 479 c.p. e dall’altro emetteva avviso d accertamento suppletivo e di rettifica nr. …. in data …… 2003, intimando alla predetta spa il versamento di diritti doganali dovuti comprensivi degli interessi e delle spese di notifica pari ad euro 682.164,43.
Osservava la agenzia delle Dogane che a) con due distinte risposte del 18.11.2000 e del 17.2.2001 la Camera di Commercio di Taiwan aveva comunicato che 5 certificati non erano validi poiché erano stati falsificati i documenti che ne avevano consentito il rilascio, mentre altri 17 certificati erano falsi, b) che nel periodo in cui si erano sviluppate le importazioni della specie era in atto una frode ai danni della Comunità volta ad eludere sia le restrizioni quantitative derivanti dall’applicazione del Reg. Cee 519/94, che le misure antidumping previste dal Reg. Cee 2913/92, c) che non era stata fornita la prova che
La merce importata non fosse assoggettabile al dazio antidumping, d) che infine la fattispecie sopradescritta era contemplata dall’art. 221 comma 4 del reg. Cee 2913/92 come fatto generatore dell’obbligazione doganale in quanto attraverso la falsificazione degli atti è stato fraudolentemente certificato che detta merce aveva origine diversa al solo fine di evadere il suddetto dazio.
Sulla base di queste considerazioni autorizzava la modifica delle bollette doganali.
Con ricorso depositato il 24 novembre 2003 la spa xxx chiedeva alla commissione di I^ grado l’annullamento dell’atto impositivo, rilevando sostanzialmente tre motivi di censura: 1) omissione e carenza nella motivazione, posto che la Dogana non ha ( aveva ) allegati gli atti con cui ha dedotto la falsità dei certificati di origine, 2) assenza di presupposti per l’applicazione del dazio antidumping, posto che la Dogana ha rettificato le bollette di importazione sulla base di comunicazioni della Camera di Commercio di Taiwan inidonee a provare la falsità dei certificati di origine presentati, 3) mancata applicazione della esimente ex art. 220 del codice doganale europeo.
A questo ricorso se ne aggiungeva un altro, peraltro analogo e connesso, inerente la cartella di pagamento notificata in data 28 aprile 2004, conseguente alla iscrizione a ruolo per l’importo di euro 892.490,42.
La Agenzia delle dogane contro deduceva e la Commissione di primo grado, riunite le controversie, “ in parziale accoglimento del ricorso, rettificava l’avviso impugnato e lo rendeva valido limitatamente ai diritti doganali che risulteranno dovuti dalla rettifica delle bollette emesse a fronte dei certificati di origine i cui numeri distintivi figurano riportati sulle due comunicazioni della Camera di Commercio di Taiwan che ne hanno dichiarato la falsità “. Condannava inoltre il contribuente alle spese.
Con ricorso tempestivo ed articolato la xxx spa chiedeva: in via pregiudiziale, la rimessione degli atti alla corte Costituzionale per la questione in merito all’art. 220 comma 2^ lett. b) del codice doganale comunitario, ed inoltre l’annullamento della sentenza di primo grado e l’annullamento della cartella esattoriale emessa dalla Gest Line e notificata alla stessa spa xxx in data 28 aprile 2004, il presupposto avviso di accertamento suppletivo e di rettifica dd. 18 luglio 2003, nonché ogni altro atto presupposto connesso e consequenziale ancorché non conosciuto dalla società ricorrente.
L’ufficio doganale presentava appello incidentale, chiedendo in parziale riforma della sentenza di primo grado il riconoscimento della validità e legittimità dell’intero avviso di accertamento e della conseguente cartella di pagamento.
Entrambe le parti alla pubblica udienza del 25 febbraio 2009 illustravano oralmente le proprie ragioni. Indi la causa veniva trattenuta in decisione
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso introduttivo è fondato.
Preliminarmente va detto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 220 cdc, nella parte in cui prevederebbe una sorta di responsabilità oggettiva dell’obbligato in Dogana per il pagamento dei dazi, appare mal posta; essa comunque, come si vedrà, appare non rilevante e non merita pertanto di essere trattata e quindi neppure sollevata.
La vertenza va risolta molto semplicemente in punto di mero fatto ed in punto di prova, meglio in punto di onere probatorio, nel rispetto, questo sì, di elementari principi previsti dall’art. 24 Cost.
Non par dubbio ( al di là di preoccupanti – per uno Stato di diritto affermazioni svolte dalla Agenzia delle Dogane su cui forse non merita neppure soffermarsi, essendo solo il frutto della “ foga “ dialettica ) che spettava alla Amministrazione doganale fornire la prova della diversa provenienza della merce importata: a fronte di documentazione doganale estera presentata dal soggetto importatore in Dogana, era onere di quest’ultima dimostrare l’inverso, dimostrare cioè la falsità della dichiarazione doganale ex art. 56 dpr 43 del 1973 e quindi è solo dopo aver adempiuto a questo necessario passaggio che la Dogana può ( poteva ) avanzare ulteriori pretese erariali verso la spa xxx.
Pare a questo Collegio che obiettivamente questa prova non è stata in alcun modo fornita; riprova ne è che la spa xxx pur avendo obiettivamente speso molto per la propria difesa, non ha avuto mai il modo di contro dedurre, obiettare, contrastare a quanto veniva in maniera apodittica sostenuto dalla Agenzia delle Dogane. Basterebbe leggere le memorie e gli atti giudiziari.
Un passaggio del provvedimento dd. 18 luglio 2003, sopra citato, fa riferimento alla esistenza di “una frode in atto”, che avrebbe avuto ad oggetto merci dello stesso tipo e merci provenienti dalle stesse zone.
E’ solo in pubblica udienza che la Dogana ha presentato, a giustificazione di questo passaggio argomentativo della sua pretesa fiscale, la nota del 12 novembre 1999 spedita dal Ministero delle finanze e diretta a diverse Circoscrizioni doganali fra cui quella di Trieste; sulla base di questa missiva insomma ( su cui ovviamente la spa xxx non ha prima del 18 luglio 2003 mai potuto controbattere ) la Dogana ha argomentato uno dei più significativi passaggi del provvedimento che qui occupa.
Questo punto è invece assolutamente irrilevante, non prova nulla, ed è altamente preoccupante, nel merito e nelle procedure adottate. Alcun rapporto esiste, cioè, fra quella lettera e la asserita falsità di una o più delle 23 bollette doganali che interessano questa vicenda.
E questo per una serie interminabile di ragioni: a) perché ivi mai si parla della spa xxx b) perché ivi mai si parla di alcuna società o soggetto menzionato nei documenti doganali, 23 bollette che qui occupano; c) perché la fonte della informazione sarebbe la Francia, ma nulla ci dice che la xxx spa ha contatti con la Francia; d) perché non corrisponde né il porto di partenza e neppure la Compagnia marittima ( arg. ex 6.3 ); e) perché non corrisponde la durata del viaggio, pari infatti a 45 gg. e non 60 ( arg. ex art. 6.4 ); f) perché diversi sono i soggetti fornitori ( arg. ex 7.1 ); g) perché i sistemi di pagamento sono diversi ( arg. ex 6.4 ).
Soprattutto e questo è decisivo perché quella “ scheda delle irregolarità “ – ivi si parla di “ meccanismo fraudolento sospettato “ e quindi neppure di prova accertata e verificata in concreto – non prova assolutamente nulla, non ha alcun valore giudiziario e neppure amministrativo ed ha riferimento al più a possibili spunti investigativi e/o di controllo, ma giammai può assurgere per la pochezze e la non riscontrabilità delle sue fonti ad elemento da porre negativamente a carico degli operatori doganali.
Lo scopo di quella missiva inviata dal Ministero delle Finanze ai propri Uffici periferici invero non era certamente quello di fornire supporto a rettifica di valori, ma semplicemente quello di sollecitare le Dogane a controllare la possibile esistenza di un fenomeno e di un sistema di frode, di cui aveva sospetto, ma non certo prova: “ si rimane in attesa dell’esito dei controlli “, e questo, correttamente, era lo scopo di quella missiva, che giustamente non doveva essere conosciuta all’esterno né dagli operatori, né dalla spa xxx.
Essa è da qualificare al più una mera segnalazione investigativa, a) che non doveva neppure essere menzionata nell’atto di accertamento, in quanto atto interno alla Amministrazione finanziaria ( si tratta infatti di un arbitrio la sua “ esternazione “ ed assolutamente non probante per la spa xxx, visto che nessuno parla di questa società, b) che comunque doveva essere fatta conoscere alla spa xxx, affinché questa prima ed i Giudici poi potessero valutarne la fondatezza e la attendibilità, nel rispetto, elementare, dei diritti di difesa e contraddittorio.
Salterebbero tutte le regole se la amministrazione finanziaria potesse motivare una frode sulla base di simili missive e sulla base di simili procedure: come farebbero i cittadini a difendersi?
Insomma cozza violentemente contro ogni più elementare senso di Giustizia sostenere che la mera esistenza di una “ frode in atto “ possa comportare per il cittadino l’esborso di una somma pari ad oltre 800.000 euro, quando non si fornisca la prova né che la frode in atto esista veramente, che essa ha riguardo ad attività collegate a quella fatta propria dal soggetto che si vorrebbe “ tassare “ e che infine, e soprattutto, che a questa frode partecipi attivamente e consapevolmente il contribuente.
Sarebbe come dire, per assurdo, che poiché risulterebbe una frode in atto inerente l’abuso di alcool il venerdì sera, a tutti coloro che escono da una osteria il venerdì sera può fondatamente essere… tolta la patente, senza dover accertare in concreto che quella persona quella sera, in quel momento pur provenendo da quella osteria a quella data ora ( altamente sospetta ) sia effettivamente in stato di ebbrezza alcolica. Un tanto perché esiste… una frode in atto. Anzi, mentre per il fenomeno delle cd “ stragi del sabato sera “ potrebbe anche parlarsi di fatto notorio, altrettanto non può dirsi nel caso in esame; sicchè anche la stessa esistenza del particolare e descritto sistema di frode resta un fatto storico del tutto indimostrato.
La amministrazione doganale infine scivola ( e si contraddice ) laddove afferma che il documento sarebbe riservato e non accessibile al contribuente ( vds fg. 8 dell’atto di appello ): allora vien da chiedersi: se era riservato perché mai è stato menzionato nell’atto impositivo tributario?
Pertanto uno degli argomenti ( esistenza di una frode in atto ) portato avanti dalla Dogana di Trieste per sostenere la falsità delle dichiarazioni doganali appare veramente privo di valore. E non merita ulteriormente dilungarsi oltre. Se quindi è inconsistente, non può “ riscontrarne “ un altro.
Il secondo profilo attiene alle due comunicazioni che si dice provenire da Taiwan: una in lingua inglese datata 18 novembre 2000 ad apparente firma P:H: Hu ( si tratta di un fax diretto, pare, al Ministero delle finanze a Roma ) ed una mail in lingua inglese datata 17 gennaio 2001 diretta alla direzione compartimentale dogane di Trieste, senza firma, proveniente da un sito presumibilmente estero.
Sulla base di queste due comunicazioni la dogana di Trieste ha ritenuto di elevare avviso di accertamento.
La Commissione ha quindi il dovere, siccome richiesta dalla spa xxx, di verificare forma e merito di queste due missive, per verificare se esse rispettano la normativa e se la Dogana ha fatto bene o ha fatto male ad “ appoggiare “ il suo rilievo a questi scritti.
In primo luogo balza agli occhi che la agenzia delle Dogane ha atteso oltre due anni dall’arrivo di queste comunicazioni per contestare la provenienza della merce alla spa xxx e per redigere l’atto del luglio 2003. Attesa amministrativa, pur legittima perché non intacca i termini prescrizionali, ma che è certamente incongrua laddove lascia poi al contribuente solo 10 gg. per potersi difendere. La disparità cronologica è evidente e non spiegabile. Ad ogni modo il punto è un altro.
Va subito detto che la Dogana, in più punti delle sue memorie fa riferimento al fatto che per questi fatti, su cui si controverte, vi è stata segnalazione alla Procura della Repubblica, nel tentativo di valorizzare la serietà delle affermazioni ( e quindi la serietà della pretesa tributaria ), ma poi ha omesso di analizzare ed esporre le ragioni che portarono il Pm prima ed il GIP poi ad archiviare la notizia di reato; ragioni che sono proprio quelle inerenti alla mancanza totale di prova in ordine alla falsità dei certificati di origine. Ragioni che, per la verità, sono ampiamente condivise da questa Commissione. Senza considerare poi che una denunzia di reato in Procura non può certo essere elemento idoneo a supportare una pretesa fiscale. La denunzia in sé è frutto di un ragionamento e di un obbligo che chi la invia si assume e la sostanzia; il che significa che si tratta di mera autoreferenzialità, e quindi non rende più provato il suo contenuto. Anche il fatto di avere inviato gli atti in Procura quindi non prova nulla, meglio non rende l’accertamento doganale più….provato.
Ed ancora, proseguendo su questo aspetto, va aggiunto che l’Ufficio appare in chiara contraddizione laddove, prima tenta di legittimare il suo operato facendo riferimento ai profili penali ( esistenza di una denunzia ) e poi ( alla obiezione della parte in merito al decreto di archiviazione ) spende buona parte del suo intervento in appello ( fg. 4-6 ) per sostenere ( giustamente si lasci dire ) la non più applicabilità dell’art. 12 legge 516 del 1982 e comunque la irrilevanza del profilo penalistico della vicenda e quindi del decreto di archiviazione ( originato da quella della denunzia ).
Sui numeri e sui certificati che si sostiene essere falsi vi è stata notevole confusione, abilmente evidenziata dalla difesa della xxx, ma che già era stata compresa e posta in luce dai Giudici di primo grado che infatti avevano limitato la pretesa punitiva.
Vediamo di capire qualcosa.
I certificati e le bollette in contestazione sono 23.
La commissione di primo grado sostiene però che la prova della falsità si ha solo per 15 bollette, invero osserva che tale falsità emerge solo per la corrispondenza fra i numeri distintivi riportati sulle due comunicazioni della Camera di Commercio di Taiwan che ne hanno dichiarato la falsità. Attestando la imprecisione e basando il ragionamento esclusivamente sulle due comunicazioni di che trattasi ( e quindi, correttamente, non sulla esistenza di un collegato procedimento penale ).
E già questo elemento appare problematico, perché nessuno e riuscito a dare spiegazione di quanto accaduto: ha sbagliato la Dogana italiana, ha sbagliato la dogana di Taiwan, ha sbagliato l’operatore che ha dattiloscritto la missiva, ecc. non si sa. La dogana di Trieste, cui evidentemente incombeva l’onere, non ha rilevato questa evidente incongruenza e non ha ritenuto, nell’inerzia di ben due anni, di richiedere a Taiwan spiegazione alcuna.
Si afferma, ad ogni modo, pur prendendo atto di simili errori, da parte della Agenzia delle dogane e da parte dei Giudici di primo grado, anche richiamando decisioni giurisprudenziali autorevoli, che la semplice comunicazione data da quella Autorità che il certificato non è valido legittima la dogana di importazione ( quindi nella specie quella di Trieste ) ad avviare l’azione di recupero dei diritti doganali non riscossi, senza che questa debba o possa richiedere i motivi dell’invalidità del certificato.
La questione merita di essere affrontata, perché è il fulcro centrale delle argomentazioni di questa Commissione.
Insegna la Sc al riguardo che “ in materia doganale, l’ingiunzione, provvedimento autoritativo con il quale l’amministrazione fa valere la propria pretesa, costituisce il mezzo di esternazione del titolo e delle ragioni giustificative, al fine di consentire al contribuente di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale, ma nell’ambito del giudizio l’ente creditore è tenuto a passare dall’allegazione della propria pretesa alla prova del credito vantato nei confronti dell’intimato, fornendo la dimostrazione degli elementi costitutivi del proprio diritto. Con riguardo, in particolare, al recupero “a posteriori” dei dazi all’importazione ai sensi dell’art. 220 del reg. CEE n. 2913/92 del consiglio del 12 ottobre 1992 – nel testo risultante a seguito della modifica recata al numero 2, lettera b, dal reg. CEE n. 2700 del 16 novembre 2000, avente valore interpretativo e perciò applicabile anche ai rapporti sorti anteriormente -, alla stregua dell’interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia delle Comunità europee ( sent. 9 marzo 2006 in C-293/04 ), spetta alle autorità doganali – conformemente alle regole tradizionali di ripartizione dell’onere della prova – dimostrare che il rilascio di certificati di origine inesatti che danno diritto al recupero daziario è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore ( che esclude l’errore “attivo” dell’autorità competente quale causa esimente della contabilizzazione “a posteriori”), salvo che una siffatta dimostrazione non sia possibile per fatto dello stesso esportatore ( mancanza di documentazione giustificativa ), nel qual caso, invertito l’onere, è il debitore che deve provare che i certificati rilasciati dalle autorità dei paesi terzi erano fondati su una inesatta rappresentazione”.
Non vi è dubbio che la Dogana non ha fatto corretta applicazione di questo principio.
Ebbene possiamo dire provato che la falsità ( si vedrà con quale ampiezza ) di quei certificati derivi dalle due mail?
La spa xxx è bene dirlo ha ampiamente disconosciuto detti atti. I dati normativi di riferimento sono molti ed essi partono, è ovvio, dall’art. 2712 cc. Occorre dire che il documento informatico, sprovvisto di qualsiasi firma elettronica che ne attesti la provenienza ( ed è il nostro caso ) essendo pur sempre un documento ha l’efficacia probatoria prevista da detto art. 2712 cc ( vds art. 10 dpr 445 del 2000 come modif. ) riguardo ai fatti ed alle cose rappresentate. In sostanza a fronte di un documento informatico privo di firma digitale il disconoscimento volto a rimuovere l’efficacia probatoria di detto documento deve essere circostanziato e deve concernere la sua capacità rappresentativa della realtà ( vds Cass. 9884 11 maggio 2005 ) e quindi ove la contestazione vi sia stata, la riproduzione, pur perdendo il suo valore probatorio, conserva tuttavia il minor valore di un semplice elemento di prova, che può ( meglio deve ) essere integrato da ulteriori elementi.
L’art. 20 del codice dell’amministrazione digitale ( che può essere preso a base come termine di riferimento ) afferma che l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, fermo restando quanto disposto dal comma 2. Sicchè qualora il documento informatico sia dotato di firma digitale sarà in tutto e per tutto equiparabile al documento cartaceo, nel caso in cui si tratti invece di un documento privo di dispositivi di firma qualificata, non ne viene esclusa tout court la natura scritta, ma questa potrà essere valutata caso per caso, dall’organo giudicante.
Se insomma il documento informatico dotato di firma qualificata – ossia di firma digitale – ha il valore probatorio di cui all’art. 21 del citato codice ( che quindi ci riporta all’art. 2702 cc ), è evidente e consequenziale che il documento digitale che sia privo di detta firma qualificata non possa giammai avere la stessa valenza probatoria, ma ne deve avere una inferiore, una cioè che da sola non possa mai assurgere a prova dei fatti ( qualora sia contestata ).
Quanto alla mail in argomento vale rimarcare che l’amministrazione doganale non è riuscita a dimostrare alcunché in merito alla cd “ garanzia di immodificabilità del testo presentato in giudizio “; al pari nulla ha argomentato, né ribattuto in ordine alla non trascurabile questione della dimostrabilità dell’origine e quindi della paternità del documento stesso. Il pensiero ad es. va alla cd funzione di hash, ovvero alla impronta digitale.
Ma il problema ancor più grande nel caso di specie è un altro come si può essere certi della paternità della mail?, in altre parole come questo Collegio giudicante può garantirsi che quel dato messaggio sia stato inviato proprio dal titolare della casella di posta elettronica e non da altri? Insomma, anche a prescindere dalla rispondenza della casella di posta elettronica ad un ufficio pubblico di Taiwan ( peraltro neppure dimostrata ), ad un ufficio cioè doganale, ad un ufficio effettivamente competente, come possiamo essere certi che chi firma sia il titolare di quell’Ufficio? Abbia il potere di rappresentare l’Ufficio? E via dicendo. E questo non è irrilevante, visto che la xxx ha formalmente contestato che la Camera di Commercio possa emettere polizze di carico. Questo invero non avviene nella maggior parte dei paesi del mondo: a questa osservazione puntuale, specifica, l’Ufficio non ha saputo rispondere.
Ed infine come possiamo prestare fede ad una mail neppure firmata? ( vds la più volte citata mail di data 17 gennaio 2001 diretta a xxx@xxx.
Ancora, ed anche al di là dei problemi legati alla posta elettronica, come possiamo essere certi che quello che dice ed afferma sia vero? Visto che non siamo in grado di verificare in alcun modo il ragionamento logico ed il supporto probatorio delle sue affermazioni? Ci si sarebbe aspettati di leggere che quei documenti sono falsi perché ce lo ha detto lo spedizioniere doganale, perché quella ditta non esiste, perché non ci sono fabbriche in quel luogo, ecc. ecc. una motivazione logica e coerente al dato di fatto che permetta ( arg. ex art. 24 Cost. ) di confutarla ed al collegio di valutarla esatta o meno. Ed invece nulla di tutto ciò.
Orbene si è assodato, per il richiamo all’art. 2712 cc, che questi documenti provenienti dall’estero non possono essere da soli posti a fondamento di un accertamento, ma sono valutabili liberamente, e siccome sono giunti ad un Ufficio finanziario italiano, questo Collegio deve considerarli con massima attenzione, visto che non sono stati disconosciuti dalla A.F. ricevente, e tuttavia:
– la mail di data 17 gennaio 2001 che sarebbe pervenuta da Taiwan ( si badi bene che è quella sopra citata e quindi senza firma ) fa riferimento ad una missiva dell’ufficio delle Dogane di Trieste di data 13 dicembre 2000, affermando che “ i numeri dei 19 certificati di origine non sono nostri “:ma, come esattamente osserva la società xxx spa, nell’oggetto della missiva si fa riferimento non a 19 bensì a 10 certificati di origine ( Verifica dei certificati di origine : segue il nr di soli 10 però ); nella missiva del 13 dicembre 2000 si chiede di controllare la regolarità di tutti i certificati di origine di cui alla lista allegata che però a ben contare non sono 19 certificati bensì 22.
– la stessa mail afferma che “ non sono nostri e pertanto sono falsi “ ( ma questa consequenzialità logica non appare ovviamente convincente e neppure razionale ); siamo certi che, come sopra detto, sia la Camera di commercio ad avere il compito di emanare le polizze di carico?
– Il fax che sarebbe pervenuto da Taiwan e datato 18 novembre 2000 afferma che i 5 certificati di origine sono falsi, ma ivi si menziona anche di una polizza di carico di cui si sconosce ogni elemento ( e perfino cosa entri in questa vicenda )
– Con nota 22 febbraio 2005 la agenzia delle dogane invia ( successivamente alla sentenza di primo grado ) la missiva del 13 dicembre 2000 diretta a Taiwan, ma guarda caso, a ben leggere, è apposto il timbro di conformità all’originale solo sulla missiva e non sulla lettera allegata che riporta i nr. dei certificati.
Ne emerge anche che ( come in atti sempre evidenziato dal contribuente ) non corrisponde oggettivamente al vero la affermazione pur contenuta nell’avviso di accertamento della dogana di Trieste secondo cui la Camera di commercio di Taiwan avrebbe dichiarato essere falsi 22 certificati ( 5 + 17 ) = questo dato numerico è palesemente errato. Da dove la Dogana tragga il nr. 17 non si riesce affatto a comprendere.
Insomma una bella confusione non c’è che dire. E lealmente lo riconosce lo stesso Ufficio laddove afferma che “ la CTP non ha ritenuto la legittimità dell’intero avviso, è costituito da una mera leggerezza dell’Autorità estera che nella risposta ref. 08 nell’oggetto ha indicato a titolo esemplificativo solo i numeri di alcuni dei certificati”.
Confusione che abbraccia anche aspetti meramente geografici, posto che correttamente Taiwan è il nome di uno Stato e non certo di una città. Il che non è irrilevante, laddove la falsità affermata dall’Autorità estera deriva non da precisi accertamenti, ma da apodittiche affermazioni del tipo “ non sono nostri “ e pertanto sono falsi.
In definitiva non vi è prova alcuna, prova si badi bene giuridicamente apprezzabile, per ritenere che i certificati della xxx spa siano falsi ( troppa è la confusione, troppo è stato compresso il diritto di difesa, troppo è risultato impreciso e non dimostrato ) e pertanto gli avvisi di accertamenti in trattazione meritano di essere annullati.
Si potrà obiettare ( con comprensibile rammarico ) che queste sono le procedure e questi sono gli accordi internazionali – che sono stati nella specie rispettati – con le Autorità estere e che, di conseguenza, la Dogana di Trieste non può e non potrebbe correggere giammai errori altrui ( esteri nella specie ); ma questo argomentare, pur anche corretto sotto l’aspetto dei rapporti di mutua assistenza doganale, non pare sufficiente a comprimere il diritto di difesa o comunque le regole probatorie proprie del processo civile-tributario italiano, quale qui si applica ( per tentare un semplice esempio nessuno potrebbe – né dovrebbe – mai condannare in Italia taluno sulla base di una confessione effettuata all’estero sulla base di accordi internazionali, confessione strappata però con il sistema della tortura ).
Giuste ragioni, anche per la esistenza di un minimo principio di prova offerto, ( altre considerazioni paiono superflue ) inducono a compensare integralmente le spese di lite.
P: Q. M.
In accoglimento del ricorso introduttivo, annulla gli avvisi di accertamento e relative cartelle di pagamento emesse dalla Dogana nei confronti di xxx spa
Spese compensate
Così deciso in Trieste 25 febbraio – 20 maggio 2009
Il Presidente estensore
Raffaele Tito
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