I verbali dell’OLAF non possono disconoscere l’origine.

lucioNon è legittimo l’accertamento doganale se questo è basato esclusivamente su un’informativa dell’OLAF senza che vi sia un riferimento diretto alla merce importata.

Pertanto, come statuito dalla Cassazione, se l’accertamento doganale è conseguente ad un’indagine dell’Olaf, grava sull’Amministrazione l’onere di provare che tale indagine sia direttamente riferibile ai prodotti sottoposti a rettifica.

Come noto, infatti,  i soli verbali dell’Olaf non consentono di disconoscere l’origine dichiarata in dogana, dovendosi fornire elementi suppletivi, che diano certezza della provenienza delle merci.

Ordinanza Cassazione Civile  Sez. 5   n. 8337  del 29 aprile 2020

FATTO
1. La Commissione tributaria regionale della Liguria, con sentenza n. 1420/2017, depositata il 6/10/2017, ha rigettato gli appelli proposti dall’Agenzia delle dogane avverso le sentenze nn. 1753/14 e 1754/14
della Commissione provinciale di Genova che aveva accolto i ricorsi della società C.A.D. International, rappresentante doganale, (di seguito: la Società) avverso gli avvisi di accertamento nn. 7041 e 92.780 per dazi 2011 relativi alle importazioni di prodotti, asseritamente provenienti dall’Indonesia, e dichiarati originari di tale paese, ma accertati essere invece di origine cinese.
2. Il giudice d’appello:
– rilevava che l’agenzia aveva richiamato l’indagine parziale dell’Olaf, dalla quale non era possibile comprendere se fosse relativa alle operazioni contestate; inoltre, l’indagine svolta in Indonesia era priva di elementi certi in ordine all’origine doganale dei prodotti importati;
– osservava che le informative Olaf non potevano costituire piena prova dell’origine delle merci e che non era stato compiuto un monitoraggio dei container delle merci importate nell’Unione Europea per
verificare se essi si erano limitati soltanto a fare scalo in Indonesia;
– riteneva che, anche ad ammettere che la merce importata non fosse di origine indonesiana, non vi erano elementi, per inferire che essa fosse di provenienza cinese;
– concludeva che, senza una completa tracciabilità della merce nel suo percorso dalla Cina, mancava la prova della sua origine cinese.
3. La sentenza è stata impugnata dall’Agenzia delle dogane sulla base di due motivi. La Società resiste con controricorso, supportato da memoria illustrativa.
DIRITTO
1. Con il primo motivo, l’amministrazione ricorrente denuncia la «violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 2697 e ss. c.c. e del loro combinato disposto (articolo 360, comma, n. 3 e 4 c.p.c.)». In i
sintesi, rileva che la CTR aveva omesso di esaminare l’esame del documento denominato “FINAL REPORT” 5rodotto con l’atto di appello. La censura è infondata. D • o • g la stessa Agenzia a pag. 39 che
ammette che il documento prodotto, e non esaminato dalla CTR, “non apportava novità sostanzialmente significative all’accertamento già svolto e riportato nel “Mission Report” e aveva solo finalità di completezza istruttoria, con la conseguenza che il mancato esame non ha pregiudicato la possibilità per la CTR di avere una integrale conoscenza dei dati di fatto su cui era fondata la pretesa tributaria.
2. Con il secondo motivo, l’Agenzia eccepìsce la «violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e ss. del c.c. dei principi afferenti all’onere probatorio. Violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 16 Reg. CE
515/97 e dell’art. 11 del esecuzione Reg.(UE) 883/2013 (articolo 360, comma primo, n. 3 c.p.c.), dal momento che le affermazioni della CTR, circa la mancata prova da parte dell’ufficio dell’origine cinese delle merci, si poneva in contrasto con il valore probatorio da riconoscersi al Report dell’Olaf. In particolare, secondo l’ufficio, le verifiche compiute dai funzionari dell’Olaf in esecuzione di una missione comunitaria avevano consentito di accertare la falsa dichiarazione di origine “Indonesia” degli elementi di fissaggio in realtà originari della Repubblica popolare cinese, al fine di evadere l’applicazione delle misure antidumping: era, infatti, emerso che la società apparentemente esportatrice – PTY and T Fasteners – non possedeva una reale capacità produttiva essendo priva dei macchinari necessari e nelle quantità necessarie per effettuare quel tipo di lavorazione, e che le importazioni, descritte come prodotti semilavorati, avevano riguardato in realtà prodotti finiti, trasbordati senza alcuna lavorazione nell’Unione Europea. Osserva infine che il tracciamento dei container richiesta dalla CTR per supportare la pretesa daziaria, pur posto in essere in alcuni casi, non era sempre tecnicamente attuabile, a tal fine rendendosi necessario l’invio di specifiche missioni.
2.1. In via preliminare, si osserva che è infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, giacché, diversamente da quanto sostenuto dalla controricorrente, il ricorso in esame contiene specifiche, intellegibili ed esaurienti argomentazioni, dirette a motivatamente censurare le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, anche evidenziandone la contrarietà con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità.
2.2. Anche questa censura è infondata. La CTR ha fatto corretta applicazione dei principi sull’onere probatorio avendo fondato la sua decisione sulla carenza dì prova in ordine alla riferibilità delle indagini compiute alla merce in contestazione e alla loro origine cinese. Sicché, sul piano della ripartizione dei carichi probatori, la sentenza si pone in linea col principio fissato dalla giurisprudenza unionale (Corte giust. 16 marzo 2017, causa C-47/16, Veloserviss SIA), secondo cui qualora la relazione «…contenga unicamente una descrizione generale della situazione di cui trattasi, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare, tale relazione non può essere di per sé sufficiente per dimostrare, in modo giuridicamente valido, che tali condizioni siano effettivamente soddisfatte in tutti gli aspetti, in particolare per quanto concerne il comportamento rilevante dell’esportatore; in tali circostanze,
spetta, in linea di principio, alle autorità doganali dello stato di importazione fornire la prova, mediante elementi di prova supplementari, che il rilascio, da parte delle autorità doganali dello stato di esportazione, di un certificato di origine «modulo A» inesatto è imputabile alla presentazione inesatta dei fatti da parte dell’esportatore»; – il giudice nazionale ha nel caso in questione compiuto, con valutazione in questa sede non sindacabile (vedi, tra varie, Cass., ord. 17 gennaio 2019, n. 1234), l’apprezzamento degli elementi sottoposti al suo giudizio, facendo appunto leva sulla inidoneità dell’accertamento dell’Olaf e alla mancanza di elementi supplementari (la tracciabilità dei conteniners) che dessero certezza della provenienza delle merci dalla Cina;
– il ricorso va dunque respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle Dogane al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 7.000 per compensi, oltre rimborso forfetario e accessori di legge.

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